Indossa il tuo cuore sulla tua pelle in questa vita.
(Sylvia Plath)
La fotografia di Michele Mattiello è una foto del corpo sul corpo, intendendo un ampio margine di senso della corporeità, quindi anche, e soprattutto, quell’indagine psichica che coinvolgendo le profondità emotive fa affiorare sulla pelle le intime tracce del vissuto. In questo caso la lettura epidermica del corpo fotografato ci introduce necessariamente verso la sua magmatica complessità strutturale.
La ricerca di Mattiello muove dalla narrazione del corpo, con particolare attenzione a quanto ha da raccontare il derma: strato superficiale, involucro protettivo, ma anche vaso comunicante tra il dentro e il fuori del corpo.
Con la sua fotografia, l’autore ci fa avvicinare un corpo esperito nelle sue mutevoli dimensioni di relazione: lontananza, vicinanza, assenza.
Un corpo di cui Mattiello sigilla, nello scatto, una narrazione parziale, mai nella figura umana nella sua interezza, quasi aderendo al precetto filosofico di una parte per il tutto.
I volti scompaiono. L’identità fisionomica che rintracciavamo nei lavori precedenti qui è demandata in toto alla fisicità. È il che corpo parla. Stavolta non urla, non si apre allo svelamento, piuttosto si raccoglie in preghiera, cerca protezione e vicinanza sodali.
Specchio di un successivo bisogno sia autoriale che sociale.
Come ha interiorizzato il corpo eventi collettivi fatti di distanze, come ha reagito al lockdown, al silenzio del confinamento, al demandare la vita vissuta alla rete e ad una socializzazione virtuale?
Assistiamo ogni giorno a un processo si spersonalizzazione spietata dell’identità più vera e personale, sacrificata ad una ideale identità massificante. I corpi che troviamo esposti sui social sono massificati esteticamente, non raccontano nulla della loro permanenza sulla terra, della loro vita.
Piuttosto, propongono compulsivamente il loro darsi nell’eternità.
Corpi di plastica, perfetti, senza data di scadenza.
Eppure, sappiamo bene che non è così. Il nostro stesso corpo ne è testimonianza.
“L’equazione di Dirac” è nota anche come l’equazione dell’amore, ma in realtà faccenda molto più complessa, con punto d’arrivo quasi agli antipodi. Secondo l’equazione, se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema.
Senza entrare nell’oscuro e tempestoso, almeno per me, mare della fisica (in cui mi muovo come naufrago disperato che per di più non sa nuotare), trovo invece interessante approfondire nella lettura delle fotografie il tema principe della ricerca dell’autore, un processo che indaga il corpo e l’Uomo attraverso attrazione e repulsione, solitudine e assenza, vicinanza e lontananza.
Il fotografo si focalizza su soggetti dei quali non inquadra il volto ma soltanto il loro tronco nudo. Gioca sulla torsione del corpo e sulla molteplicità dei soggetti ritratti in un unico scatto.
Troviamo un corpo nel quale più mani ne agganciano una porzione, che sia un seno o una coscia. Una moltitudine per definire l’essenza. Un riprendere possesso di questo corpo che è ritratto nella sua verità meravigliosa: peli, nei, pelle raggrinzita.
Vertice di tenerezza, i segni che gli indumenti hanno inciso sulla pelle, quasi come delle cicatrici. Cercando nel corpo trovo tracce del suo abito. Metafora straordinaria per parlare del corpo collocato nell’ambiente, fisico, sociale, provato, ambientale.
Qui Mattiello è un vero maestro. Scrutando la pelle dei protagonisti ne immaginiamo vita, provenienza, dolori e gioie.
La pelle ci regala preziosi indizi. Seguiamo la sua trama, la pelle è narrazione, come le pagine di un libro ci racconta una storia.
Sono fotografie in bianco e nero. A differenza di altri suoi lavori precedenti qui però il corpo non urla, non piange, non esprime solitudine, piuttosto si ritrova, si abbraccia, si ricongiunge agli altri corpi.
Ha bisogno di comunicare.
Qui i corpi si parlano.
L’Uomo torna a casa, finalmente si riconcilia.
Barbara Codogno